Favoloso Calvino, l’ultimo dei classici

Bellissima la mostra “Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte. Carpaccio, De Chirico, Gnoli, Melotti e gli altri”, che ho visto ieri alle Scuderie del Quirinale di Roma (fino a febbraio 2024). Ricca di suggestioni visive e fantastiche, ma allo stesso tempo sorretta da una struttura rigorosa e precisa. Un po’ come la scrittura, mi viene da pensare. Che per Calvino dev’essere sì leggera ma anche esatta, con “un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato”. Perché la vera leggerezza “si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”.
Ci sono le opere degli artisti, pittori e illustratori con i quali ha collaborato, dai quali ha tratto linfa vitale per dar forma alle intuizioni, ai labirinti, ai giochi di parole che tanto amava. E ci sono le fotografie, quelle bellissime in bianco e nero di Salgado che lo ritraggono mentre scrive sul terrazzo della sua casa romana: appoggiato a un tavolino di metallo, con una mano sulla testa e le rughe sulla fronte – quelle che, come diceva lui stesso, venivano subito smentite dal suo sorriso enigmatico -, con davanti un foglio scritto a penna pieno di correzioni e cancellature.
Ci sono le lettere alla moglie Chichita e ai grandi autori contemporanei che curava e traduceva con passione infinita, ci sono i ricordi della natìa Sanremo che si snodano fra muretti a secco e boscaglie, sulle orme del padre, agronomo, e della madre, prima donna italiana a ottenere una cattedra di botanica. Entrambi scienziati, dunque, entrambi amanti delle cose precise, concrete, misurabili.
Ci sono perfino alcune canzoni, quelle di cui – ho scoperto con grande sorpresa – aveva composto il testo: “Tutto il male avevamo di fronte / tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent’anni la vita è oltre il ponte / oltre il fuoco comincia l’amore”, recita il ritornello di “Oltre il ponte”, composta da Sergio Liberovici e piena degli echi della lotta partigiana, combattuta in gioventù sui monti della sua Liguria.
Alla fine ho comprato una copia di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, il suo penultimo romanzo, composto da una serie di incipit che il lettore, per svariate vicissitudini, non riesce mai a finire. E poi una di “Lezioni americane”, il suo testamento sul senso e sul valore della letteratura, uscito postumo nel 1988, a tre anni dalla morte.
Ma soprattutto sono uscita con la testa piena di frasi, alcune celeberrime, che da sole sono in grado di evocare un mondo: “La fantasia è un luogo dove ci piove dentro”, ad esempio. Non serve aggiungere altro.

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