Un memoir che è un piccolo capolavoro: “Cavalli di razza”

John Jeremiah Sullivan era poco più che trentenne quando, nel lontano 2004, esordì con Cavalli di razza, ora pubblicato in italiano da 66thand2nd. Un piccolo capolavoro a metà tra il memoir e il new journalism, nel quale il racconto della realtà – e in particolare della vita di suo padre, giornalista sportivo appassionato di ippica con il vizio delle sigarette e dell’alcol – si eleva al rango di alta letteratura.

La figura di Mike Sullivan emerge, pagina dopo pagina, grazie a una serie di articoli da lui scritti durante una delle corse più importanti d’America, il Kentucky Derby, e ai racconti resi al figlio da un letto di ospedale poco prima di morire ad appena 54 anni. “Ero al Derby di Secretariat, nel ’73, l’anno prima che tu nascessi […] È stato pura bellezza. […] Ma d’un tratto ecco che […] arriva Secretariat. E lo supera. Nessuno aveva mai visto un cavallo correre in quel modo – lo hanno detto anche un sacco di vecchi. Era come se ci fosse un altro animale là fuori. Al Belont, li ha quasi doppiati”.

Il racconto della vita di Mike è inframmezzato da brani che illustrano il rapporto tra uomini e cavalli nella storia e nella letteratura: dal Mein Kampf si apprende ad esempio che Hitler ” […] i cavalli li odiava. Non era bravo a cavalcare, e non sopportava l’arroganza aristocratica degli ufficiali di cavalleria, che provenivano – in tutta Europa – dalla nobiltà. Hitler provò persino ad abolire la cavalleria, mossa sensata all’epoca, seppur audace, ma per la Wehrmacht i cavalli erano indispensabili nel fango e nelle lande prive di strade del teatro delle operazioni in Russia”.

L’autore riesce a comporre un affresco unico, insieme realistico e affettuoso, umanissimo e di ampio respiro. La scrittura, di rara bellezza ed equilibrio, ha fatto giustamente esclamare alla critica statunitense: “Si legge come Moby Dick curato da F. Scott Fitzgerald”. E queste aspettative non vanno affatto deluse.